Nell’esercizio della sua attività il medico deve naturalmente comportarsi con diligenza; ma qual è il grado minimo di diligenza? Come si misura?
La legge prevede che nell’adempimento delle comuni obbligazioni ognuno di noi debba utilizzare una diligenza media, quella del “buon padre di famiglia”.
Nel caso invece di attività professionali, dunque anche quella del medico, è richiesto qualcosa in più: è richiesta la diligenza del professionista medio e, dice la Cassazione, “l’ideale “professionista medio” di cui all’art. 1176, comma 2, c.c. […] non è un professionista “mediocre”, ma è un professionista “bravo”: ovvero serio, preparato, zelante, efficiente”.
Muovendo da queste premesse, di recente la Corte di Cassazione ha affermato la responsabilità di un medico che, di fronte ad un paziente con sintomi aspecifici, non si era attivato per accertare le effettive cause di quei sintomi.
Secondo la Corte, infatti, “di fronte a sintomi aspecifici, potenzialmente ascrivibili a malattie diverse, o comunque di difficile interpretazione, il medico non può acquietarsi in una scettica epoché, sospendendo il giudizio ed attendendo il corso degli eventi. Deve, al contrario, o formulare una serie di alternative ipotesi diagnostiche, verificandone poi una per una la correttezza; oppure almeno segnalare al paziente, nelle dovute forme richieste dall’equilibrio psicologico di quest’ultimo, tutti i possibili significati della sintomatologia rilevata”.
Cosa vuol dire?
Vuol dire che la circostanza che un paziente presenti dei sintomi non riconducibili immediatamente ad una specifica patologia non legittima il sanitario a non fare degli accertamenti più approfonditi; al contrario, proprio il fatto che i sintomi siano generici, deve indurre il medico a compiere “ogni sforzo per risalire, anche procedendo per tentativi, alla causa reale del sintomo”.
Avv. Mauro Sbaraglia