Domanda: se una malattia viene diagnosticata in ritardo, è dovuto un risarcimento al malato o ai suoi eredi anche se la malattia non era curabile e l’esito sarebbe stato ogni caso infausto?
A questa domanda la Corte di Cassazione ha risposto con la sentenza n.10424/19, pubblicata il 15 aprile scorso.
Diciamo subito che la risposta della Cassazione è: sì, il risarcimento è dovuto.
Vediamo perché.
Gli eredi di una signora morta per un tumore, avevano chiesto il risarcimento dei danni ad una struttura ospedaliera, che aveva diagnosticato con ritardo la malattia.
Sia in primo, che in secondo grado la richiesta di risarcimento era stata rigettata, sul presupposto che una tempestiva diagnosi del tumore non avrebbe comunque evitato il decesso della donna.
La Cassazione, invece, ha ribaltato le due sentenze.
Nella sentenza si legge che, di fronte ad un’omessa tempestiva diagnosi di un tumore “ad esito, comunque, infausto”, bisogna considerare che tale ritardo ha inciso negativamente sulla qualità di vita del paziente.
Quest’ultimo, infatti, nel periodo intercorso tra la diagnosi errata e quella esatta ha visto “perdurare il suo stato di sofferenza fisica senza che ad esso potesse essere apportato un qualche pur minimo beneficio perché vi era stata quella diagnosi erronea”.
In altre parole, se la patologia fosse stata diagnosticata tempestivamente, il paziente avrebbe potuto beneficiare delle terapie più opportune e magari alleviare i suoi dolori e le sue sofferenze.
Ma v’è di più.
Anche in caso di patologie non curabili, non viene comunque meno il diritto del paziente di autodeterminarsi e di programmare come meglio crede gli ultimi anni o mesi della propria vita.
La Corte dice che “è, dunque, la lesione di tale libertà che è rimasta priva di ogni considerazione da parte della sentenza impugnata, ovvero quella di scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita”.
In altre parole, una diagnosi tardiva, da un lato, pregiudica l’integrità fisica del paziente e quindi la possibilità di vivere meglio l’ultimo periodo sino alla morte, dall’altro lato, fa venir meno “non solo l’eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine”, giacché, tutte queste scelte “appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali“.
In conclusione, in caso di ritardo nella diagnosi di una malattia non curabile, il risarcimento deve tener conto:
- del peggioramento delle condizioni psico-fisiche nel periodo compreso tra la diagnosi errata e quella corretta;
- della lesione del diritto di ciascuno di noi di conoscere le proprie condizioni di salute e di decidere quindi liberamente come trascorrere l’ultimo periodo della propria esistenza.
Avv. Mauro Sbaraglia