Qualche settimana fa avevo segnalato una sentenza della Corte di Cassazione, con la quale era stato riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale ai familiari stretti di una donna vittima di un grave errore medico.
Il principio è stato riaffermato dalla Cassazione pochi giorni fa, con l’ordinanza n.1640/20 del 24 gennaio scorso.
Quest’ultimo caso riguardava un bambino che aveva subito la perdita di una gamba, a causa di un errore commesso dal personale di una clinica.
I genitori del minore avevano chiesto un risarcimento per la grave sofferenza che, ovviamente, anch’essi avevano patito.
La Corte d’Appello di Palermo aveva respinto la domanda, ritenendola non sufficientemente provata.
La Corte di Cassazione ha invece riformato la sentenza di secondo grado, affermando il diritto dei genitori di ottenere il risarcimento.
La motivazione sulla quale si basa la pronuncia è la seguente: “il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva, tipicamente integrata dalla gravità delle lesioni e dalla convivenza familiare strettissima normalmente propria del rapporto tra genitori e figlio”.
In buona sostanza, chi richiede il risarcimento del danno non patrimoniale (vale a dire della “sofferenza morale”) non deve offrire una particolare prova; è sufficiente che dimostri che un congiunto, con il quale c’è un rapporto di “convivenza familiare strettissima”, abbia subito delle lesioni gravi.
Sarà eventualmente onere della controparte dimostrare che il risarcimento, per una qualche particolare ragione, non è dovuto.
Dunque, gravità delle lesioni, parentela stretta e convivenza sono i tre elementi in presenza dei quali, salvo prova contraria, si può chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale.
Avv. Mauro Sbaraglia