In passato ho parlato di alcune sentenze della Corte di Cassazione che hanno affermato l’obbligo del medico di informare esaustivamente i suoi pazienti sui rischi di un intervento o i possibili effetti collaterali di una terapia.
Qualche giorno fa, con la sentenza n.653/21, la Corte di Cassazione ha affrontato un particolare aspetto di questo obbligo informativo del medico: quello riguardante la gravidanza e le possibili malformazioni del feto.
La vicenda può essere così sintetizzata.
Una donna, “dopo un travaglio protrattosi per ben ventiquattro ore […]”, dà alla luce un bambino “che presentava gravissime lesioni cerebrali conseguenti a calcificazioni nervose”.
La donna fa causa ad un medico e ad un ospedale romano, lamentando che il medico “non l’aveva adeguatamente informata sui rischi per il feto correlati ad un’infezione da citomegalovirus da essa contratta, in modo da consentirle di interrompere la gravidanza, nonché (quanto alla sola struttura ospedaliera) all’ulteriore fatto che il parto con taglio cesareo era stato effettuato dopo un prolungato e inusuale travaglio che aveva comportato una sofferenza fetale”.
Il Tribunale e la Corte d’Appello di Roma respingono la domanda.
La Corte di Cassazione ha invece riformato la sentenza di appello, disponendo un nuovo giudizio di secondo grado.
Cosa ha detto la Cassazione?
La Corte ha innanzi tutto richiamato l’art. 6 della legge n.194/78, che prevede:
“L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
Secondo la Cassazione, deve ritenersi che la norma sopra citata non richieda che “la anomalia o la menomazione si sia già concretizzata in modo da essere strumentalmente o clinicamente accertabile, ma dia rilievo alla circostanza che il processo patologico possa sviluppare una relazione causale con una menomazione fetale”.
In altre parole, non sono rilevanti solo le malformazioni del feto che si siano già concretizzate; al contrario, è sufficiente che dette malformazioni possano verificarsi e che si possa quindi creare un pericolo per la salute, anche quella psichica, della donna.
Pertanto, hanno rilievo anche quelle situazioni, in cui la patologia “risulti comunque tale da poter determinare nella donna – che sia stata informata dei rischi per il feto – un grave pericolo per la sua salute psichica”.
Ne consegue che “il medico al quale la gestante si sia rivolta per conoscere i rischi correlati ad un processo patologico deve informarla compiutamente della natura della malattia e della sue eventuali potenzialità lesive del feto, onde prospettare alla stessa un quadro completo della situazione attuale e dei suoi possibili sviluppi; dal che consegue che l’omissione di un’informazione corretta e completa sulla pericolosità del processo patologico non consente alla gestante di acquisire elementi che – se conosciuti – potrebbero determinare nella stessa la situazione di pericolo per la salute psichica che potrebbe giustificarne la scelta abortiva”.
Questi i due principi di diritto affermati dalla Cassazione:
- “l’accertamento di processi patologici che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità, rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro consente il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza, ai sensi dell’art. 6, lett. b) della legge n. 194/78, laddove determini nella gestante -che sia stata compiutamente informata dei rischi- un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, da accertarsi in concreto e caso per caso, e ciò a prescindere dalla circostanza che l’anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata“;
- “il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate a una patologia dalla medesima contratta può essere chiamato a risarcire i danni conseguiti alla mancata interruzione della gravidanza alla quale la donna dimostri che sarebbe ricorsa a fronte di un grave pregiudizio per la sua salute fisica o psichica“.
Avv. Mauro Sbaraglia
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