Partita di calcio tra ragazzi: fallo e risarcimento del danno

Chi ha figli minorenni che giocano a calcio o che comunque praticano uno sport di contatto dovrebbe dare uno sguardo ad una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n.20171/24.

In estrema sintesi, questi sono i fatti: durante una partita di calcio della categoria allievi (14-16 anni), un calciatore “intervenne volontariamente con la gamba tesa ed il piede a martello sul ginocchio di F.F., che aveva fermato il pallone a terra con il piede, procurandogli lesioni personali”.

I genitori del ragazzo infortunato fecero causa ai genitori del ragazzo che aveva fatto il fallo.

Il fascicolo è arrivato davanti alla Corte di Cassazione, che nell’ordinanza si è occupata, in particolare, di due aspetti:

  1. quando si configura una responsabilità dei genitori per i fatti illeciti commessi dai figli minorenni;
  2. quando un fallo di gioco si deve considerare un fatto illecito.

In relazione al primo profilo, occorre innanzi tutto ricordare che l’art. 2048 c.c. dispone: “Il padre e la madre […] sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori […]. Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non avere potuto impedire il fatto”.

In caso di fatto illecito di un minore, c’è dunque una presunzione di colpa dei genitori, presunzione che può essere superata solamente dando la prova “di non avere potuto impedire il fatto”.

Qui interviene la Cassazione, che ci spiega quale prova, in concreto, debba essere offerta dai genitori, per evitare di essere ritenuti responsabili.

Secondo la Corte, “la prova liberatoria richiesta ai genitori dall’art. 2048 c.c. di non aver potuto impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore coincide, normalmente, con la dimostrazione, oltre che di aver impartito al minore un’educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, anche di aver esercitato sul minore una vigilanza adeguata all’età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un’ulteriore o diversa opera educativa”.

È evidente che non è affatto facile offrire una prova di questo tipo e, come sempre, ogni vicenda fa storia a sé, ma è comunque bene sapere, almeno a grandi linee, quali siano i criteri utilizzati dai nostri tribunali in questi casi.

Per quanto riguarda, invece, il secondo profilo, la Cassazione distingue innanzi tutto le varie attività sportive in tre categorie: 1) l’attività sportiva necessariamente violenta (es. pugilato), dove la violenza è un elemento strutturale dell’attività; 2) l’attività sportive a violenza eventuale (es. calcio e basket), dove il contatto fisico è possibile, ma non necessario; 3) l’attività sportiva dove la violenza è sostanzialmente esclusa (es. nuoto, tennis, l’atletica leggera).

Restando al calcio, la Cassazione afferma che è illecito, in primo luogo, quel comportamento caratterizzato dalla volontarietà; “sono quindi meri illeciti sportivi (e come tali non punibili penalmente e non sanzionabili civilmente) tutte quelle lesioni frutto di violazioni involontarie dei regolamenti poste in essere per incapacità, scarsa accortezza, semplice casualità, ecc. Al contrario, possono configurare illeciti penali e/o illeciti civili tutte quelle lesioni cagionate volontariamente durante una competizione sportiva, laddove la gara sia solo un pretesto per l’offesa”.

In secondo luogo, l’illecito si configura anche quando le lesioni sono provocate da una condotta sproporzionata rispetto all’azione di gioco; per cui, “nel caso in cui (nella pratica del calcio) la condotta dell’agente cagioni lesioni all’avversario, la responsabilità civile è configurabile non soltanto nel caso di condotta violenta volontaria, ma anche, più in generale, quando non sussiste uno stretto collegamento funzionale tra azione di giuoco ed evento lesivo”.

Tornando al caso del quale si è occupata la Cassazione, il fallo commesso dal ragazzo è stato ritenuto un illecito, proprio perché “la violenza, dallo stesso esercitata, era assolutamente sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco ed alla natura e rilevanza dello stesso”; c’è stata, quindi, una “situazione di anomalo comportamento di gioco che, oltrepassando i limiti del normale agonismo sportivo, sia rivolto a ledere l’avversario piuttosto che a perseguire la vittoria nella competizione”.

Questi, a grandi linee, sono i principi che vengono utilizzati dai giudici per valutare se il fallo commesso da un ragazzo minorenne durante una partita sia, per l’appunto, un semplice fallo o sia invece un illecito, che imponga un risarcimento da parte dei suoi genitori.

Avv. Mauro Sbaraglia

Foto di Omar Ramadan su Unsplash